La scena che ci si presenta è un ossimoro visivo ed emotivo.
Un prato, o meglio, un lotto di terra seminata  cresce all’interno della Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, a Milano. Un luogo monumentale, mutilato dalla guerra, ora abitato da materia viva.

L’atmosfera che ci accoglie è raccolta, quasi liturgica.

Invita alla riflessione, al silenzio, al rallentamento. Spinge chi guarda a interrogarsi. A cercare un filo che colleghi l’arte della sala, sfigurata dal conflitto, con la natura che vi trova un alloggio inatteso, con la macchina fredda al centro dello spazio e infine con la nostra immagine riflessa negli specchi antichi e stanchi.

Questi specchi, scuriti dai secoli, restituiscono un riflesso doppio: ci vediamo osservatori, spettatori, ma anche parte del paesaggio. Ammiccano alla nostra vanità, ci rendono protagonisti apparenti, cronisti di un compiacimento estetico che viene però spezzato bruscamente.

A intervalli irregolari, una struttura meccatronica al centro della sala emette una detonazione sorda. Un colpo secco che scuote aria e terra, e pianta semi. È un disturbo intenzionale, ma non ha come scopo la rottura fine a sé stessa: è il gesto vitale dell’opera.

La deflagrazione è il seme stesso. I semi cadono su tutto, indistintamente, anche se non ci sono esseri umani a osservarli. Cresceranno comunque.

L’opera, in fondo, non ha bisogno dello spettatore: è la vita che accade comunque, con o senza di noi.

© Mariano Barresi

In questo, Vascellari è lucidissimo. Seduce il nostro sguardo, ammicca al nostro antropocentrismo e poi lo disinnesca. Rimette l’uomo in prospettiva.

“La vita non è sacra”, afferma. “Lo è solo se proviamo a viverla in un certo modo. Non ha importanza se sopravviveremo o no, tanto prima o poi si deve morire, ma mi piacerebbe vedere come va a finire. L’arte torni ad avere un ruolo principale nella vita. Vale sempre la pena di provare, e in questo la vita è sacra”.

È una visione dell’arte che va oltre l’espressione personale. Un atto collettivo, in cui l’essere umano non è l’apice, ma una delle infinite forme del vivente. Il punto di vista è oltre-l’uomo. Il vero fascino dell’opera sta proprio in questa tensione: la natura come forza caparbia e autonoma, che non cerca approvazione, che non ha bisogno di essere capita.

Perché vedere la natura in contrapposizione all’uomo è già, in sé, un atto di presunzione, implica l’idea che ne siamo separati. Che ne siamo al di sopra.

Una concezione nata per giustificare la nostra presunta eccezionalità. Ma l’uomo è natura.

E l’evoluzione umana fa parte dei processi naturali, sentirsene esclusi è forse l’ultima forma di superbia.

"L’idea nasce da certi film apocalittici di fantascienza, dove città ridotte a rovine sono popolate da pochi uomini sopravvissuti. Nella mia testa, quelle visioni rappresentano la possibilità di uscire da una situazione di disastro, se solo rimettiamo in discussione il nostro ruolo".

Ripensare il nostro ruolo all’interno della vita, di ciò che chiamiamo natura: questo è il vero tema dell’opera. Non una denuncia, ma una possibilità.

Viene in mente un passaggio del film Le otto montagne, quando gli amici di Pietro, cresciuti in città, elogiano la natura in cui vive Bruno.
Bruno li ascolta e poi risponde, semplice e diretto:

“Solo voi di città la chiamate ‘natura’, perché è così astratta nella vostra mente, che è astratto anche il nome.”
L’amico gli chiede: “E voi allora come la chiamate?”
“Qua diciamo bosco, pascoli, fiumi, capre, sentiero. Cose che si possono indicare col dito. Cose che si possono usare.”

Una lezione disarmante. Un disinnesco totale della superbia antropocentrica, che ci riporta al nostro posto: co-partecipi dell’esistenza, non registi.

Anche ciò che ci rende più “speciali” come il linguaggio, l’immaginazione, la tecnologia è qualcosa di cui dobbiamo prenderci la responsabilità. L’evoluzione non è un merito. È una possibilità.

Ma data la capacità di volare: cosa scegliamo di farne? Accorciamo distanze o lanciamo bombe?

Ecco che torna quella frase:

“La vita non è sacra, se non proviamo a viverla in un certo modo”

Forse è proprio questo il ruolo che Vascellari attribuisce all’arte: non illustrare il mondo, ma parteciparvi. Non confortare, ma scuotere. Non rappresentare, ma piantare semi.

Non a caso, l’opera prende il nome da una delle composizioni più celebri di Beethoven: la Sesta Sinfonia, detta Pastorale. Un’opera che celebra la natura come esperienza sensoriale e spirituale. I suoi movimenti evocano paesaggi, tempeste, risvegli della terra.

Ma Vascellari non ne fa una citazione letterale. Piuttosto, ne raccoglie lo spirito profondo.
Là dove Beethoven suggeriva armonia, Vascellari mostra rottura. Là dove il compositore celebrava l’idillio agreste, Vascellari pianta un prato dentro le rovine.
Non è un inno alla natura, ma un gesto ambivalente: tra guarigione e disturbo, vita e meccanica, memoria e futuro.

Un seme, insomma.

L’opera
Pastorale è un’installazione site-specific che trasforma la storica Sala delle Cariatidi in un paesaggio immersivo. Al centro, una scultura meccatronica cilindrica in acciaio, posata su un letto di terra, emette periodicamente esplosioni che disperdono semi di piante infestanti. Questi germogliano nel tempo, creando un ecosistema vivo e in continua trasformazione, simbolo di resistenza e rinascita.
L’artista
Nico Vascellari (Vittorio Veneto, 1976) è uno degli artisti italiani più rilevanti della sua generazione. La sua ricerca si sviluppa attraverso una molteplicità di linguaggi: installazione, performance, suono, scultura e video.
Con un passato nel mondo della musica noise e sperimentale (è stato voce e mente dei With Love), Vascellari costruisce opere che mettono in discussione i confini tra natura e artificio, rituale e tecnologia, individuo e collettività.
Nel 2005 ha fondato Codalunga, spazio indipendente di sperimentazione artistica e sonora. Ha esposto in istituzioni di prestigio internazionale, tra cui la Biennale di Venezia (2007), il MAXXI di Roma, la Fondation Cartier a Parigi e il Palais de Tokyo.
Il suo lavoro si nutre di stratificazioni culturali, suggestioni arcaiche e riflessioni sull’identità contemporanea. Pastorale è tra le sue installazioni più ambiziose e radicali.