C’è stato un tempo in cui l’indie non era un suono, ma un modo di stare al mondo. Vasco Brondi, con il suo progetto Le Luci della Centrale Elettrica, ha tracciato una mappa fatta di schegge, non di rotte. Era lo stesso tempo in cui una generazione si perdeva ritrovandosi nelle parole messe o ri-messe al mondo da questo cantautore che con i suoi versi malinconici ci riportava alla vita dimezzando le nostre solitudini, facendole diventare condivise.
Una voce sgraziata, urgente, che sembrava provenisse da una radio impolverata dimenticata in qualche sottoscala; proprio lì, nel punto cieco dell’industria, è accaduto qualcosa: una generazione si è riconosciuta senza essere rappresentata. Non c’era messaggio, c’era verità. Non c’era estetica, c’era febbre.
In un’epoca che iniziava già a vestirsi da spettacolo permanente, Brondi ha rifiutato la seduzione dell’immagine lucida. Più che canzoni, le sue erano fenditure nella realtà: attraversamenti lirici di periferie interiori, tra centrali dismesse e sentimenti troppo vasti per essere detti senza inciampare.
Poi è successo qualcosa all’indie, poi l’unicità è diventata tendenza; una categoria di mercato, una posa, una “scena”, potremmo dire che la musica indipendente abbia imparato a sorridere alle camere. L’ossimoro si è compiuto: indie-pop. La frizione si è spenta. Tutti diversi, con lo stesso algoritmo.
Ma Brondi no, ha mollato tutto quando avrebbe potuto cavalcarlo. Ha scelto la dissolvenza invece dell’ascesa. Come certi autori che si ritirano nel silenzio prima di essere travolti dall’applauso. La sua voce è rimasta lì, incastonata in un tempo irripetibile, eppure sempre presente.

Nel suo mondo poetico, dove la provincia non è mai sfondo ma materia viva. È una specie di esilio che forma, una lente sporcata di fango e nebbia. Brondi ha scritto canzoni come si scrivono lettere a qualcuno che forse non risponderà mai. E in questo ha anticipato il vuoto comunicativo dei social, dove tutto è invio, ma senza attesa.
Non ci ha mai venduti al pop, perché non ci ha mai posseduti. Non ha cercato di parlare per noi, ma con noi. E quando il resto del panorama musicale ha iniziato a raccontare storie sospese, lui ci ha ricordato che anche i silenzi sono narrazione e parte essenziale del discorso, come quella volta in cui durante un suo concerto, dopo i nostri cori sulle note di “Ti vendi bene” (dall’album Costellazioni) ci ha ripresi dicendoci che la musica era ascolto e raccoglimento anche sulle note di un pezzo movimentato.
Forse l’indie non è morto. Forse si è solo tolto il nome di dosso. Forse abita ancora nei vuoti a margine, dove Vasco Brondi ha insegnato a guardare.